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La compagnia dell'anello

La cascata du Manzù

Sono rimasta a bocca aperta quando l’ho vista: una cascata nel mezzo dell’Appennino, ma soprattutto perché nonostante bazzichi la zona da tanto tempo non ne avevo sentito parlare.

È la cascata del Lago di Manzù raggiungibile in circa un’ora e mezza se non ci si perde lungo il tragitto… visto la poca segnaletica.

Il percorso non è particolarmente difficile, a parte nell’ultima parte quando sì è in prossimità del lago che in alcuni tratti scende deciso e leggermente esposto. La difficoltà è trovarlo.

Noi ci siamo persi diverse volte, infatti.

Inizio percorso

Intanto da dove si parte. Arrivati ai Piani di Praglia (Ceranesi, Genova) si supera la trattoria La Chellina si prosegue tra curve e tornanti fino a che non si trova sulla sinistra un’area picnic attrezzata detta “dei cacciatori” si torna un pochino indietro fino a che non si incontra – sempre sulla sinistra – uno slargo sterrato e dal lato opposto della strada ce ne è un altro. Si lascia la macchina lì e si parte. Lato sinistro vista mare. 

Per 15 minuti circa si procede sul sentiero sterrato ampio e panoramico, bisogna prestare attenzione perché ad un certo punto ad un bivio bisogna imboccare il sentiero tra due pietre – dove compaiono due cerchi gialli, uno per parte.

Se si procede dritti – come sbagliando abbiamo fatto noi – si sale per una decina di minuti e si arriva su un altopiano dove in lontananza si vede quello che ci aspetterà alla fine del percorso: la cascata e il lago.

Poi però non si può andare oltre e cosi abbiamo capito di avere sbagliato strada… 

Quindi se non volete fare la sosta panoramica prendete il sentiero segnalato con un cerchio giallo per parte, che procede prima in piano poi in leggera discesa, quando la discesa si fa molto scoscesa, fermatevi e alla vostra sinistra vedrete una frana e dall’altra parte il cerchio giallo. 

L’albero con il cerchio giallo. Da lì riprende il sentiero

(Questo è l’altro punto in cui ci siamo persi, continuando a scendere fino a che non era quasi più possibile procedere).

Se ci sono state forti piogge, scorrerà un pò di acqua sul fondo del terreno, passate dall’altra parte con pochi passi e il sentiero riprende per qualche minuto in piano poi la discesa continua più ripida e si entra nel bosco.

Ugo nel bosco

Qui inizia la parte più spettacolare del percorso: lo sguardo alterna vedute a 360 gradi con tratti nel bosco dove si sente forte l’acqua che scende impetuosa dalla cascata per fluire poi nel torrente Stura, che prosegue a valle, e raggiungere Masone.

Si scende per circa 15 minuti e poi superati un po’ di massi sul letto del fiume si arriva a destinazione. Il lago è ampio e profondo e la cascata veramente bella e impetuosa. Certo noi abbiamo fatto il trekking dopo una settimana di forti piogge e quindi l’acqua ci ha accompagnato lungo tutto il percorso, nel vero senso della parola: i piedi erano spesso nel fango e più volte abbiamo attraversato piccolo ruscelli.

La Cascata e il lago dove in estate è possibile fare il bagno

In estate la cascata non ha la forza e la portata del periodo piovoso che caratterizza l’autunno però si può fare il bagno.

Il percorso non è difficile ma presenta qualche punto critico. Lo sconsiglio se ha piovuto molto nei giorni precedenti.

Sono circa 7,8 km ma noi ne abbiamo fatti 11 perché ci siamo persi diverse volte.

Circa due e ore e mezza la durata del percorso complessivamente. Si torna indietro dalla stessa strada. 

Le foto sono di Ugo Roffi

A fine percorso, contenti anche senza il tuffo!
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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

Sulle tracce di Pellizza da Volpedo

Un borgo nella storia

Vale la pena venire a visitare questo piccolo borgo in provincia di Alessandra a due passi da Tortona, per il grande interesse storico culturale e per la sua semplice bellezza. Inserito tra i borghi d’eccellenza grazie ad un centro storico  ancora  perfettamente conservato, ma soprattutto perché qui visse e lavorò il pittore Giuseppe Pellizza da Volpedo (1868-1907) famoso per il quadro “il Quarto Stato” di cui una riproduzione in grande formato è situata in una delle piazze del paese. Da qui – grazie a 18 pannelli che riproducono altrettanti quadri, magnificamente contestualizzati – è possibile immergersi nelle atmosfere seguendo un itinerario che porta ad attraversare gran parte del paese invitandoci a guardarlo con l’occhio del pittore.

Il centro storico – mura

Il Quarto Stato in breve

Mi ha sempre affascinato questo quadro che ha un retroterra così importante e trovarcisi davanti proprio nei luoghi dove Pellizza dipingeva… – anche se è una riproduzione – beh è stato emozionante.

Realizzato tra il 1898 e il 1901 il quadro simbolo del proletariato che prende coscienza di sé e della sua forza venne subito apprezzato dalla stampa socialista che lo riproduce e lo utilizza per comunicare le istanze sociali e politiche dell’epoca ma nonostante gli sforzi del pittore viene esposto una sola volta a Roma nel 1907, nello stesso anno Pellizza si suiciderà. Nel 1920 il quadro viene acquistato per sottoscrizione pubblica ed esposto al Museo del Novecento di Milano. La fortuna del quadro crescerà nel tempo fino a diventare il simbolo della lotta di classe e della consapevolezza da parte del proletariato della necessità di lottare per i propri diritti civili e sociali.

Piazza Quarto Stato con la riproduzione del quadro – Foto Ugo Roffi

La genesi del Quarto Stato secondo Pellizza da Volpedo

«Tre anni or sono, io ero un socialista in buona fede: che vuoi? La miseria del proletariato mi commuoveva. Maturando le idee e pensando ai fatti di Milano [la repressione ordinata dal generale Bava Beccaris nel 1898], entrai invece in questa condizione che desidero esplicare con questo quadro: – I lavoratori sani, che ispirano una fermezza buona di carattere, dalla faccia robusta, dalla nerboruta persona, hanno essi pure il loro fatale andare. L’età dell’oro quando tutti, si narra, stavano molto bene, è però una bella età che si perde nel buio dei secoli e di cui il quadro accenna con un ragno di sole… Ma il lavoratore diventa, in seguito schiavo nell’età greco-romana, e tu vedi il cielo rannuvolarsi vedi poi una tetra nube incombere quasi sulla campagna, segno dell’età di mezzo, assai malagevole per il lavoratore: vedi poi quindi un sereno azzurro, simbolo de’ tempi che seguirono l’Ottantanove. La massa dei lavoratori che va via ingrossandosi procede serena, fiduciosa in un suo cammino nell’ora tarda del mattino, non ancora però sul meriggio: il meriggio verrà dopo per lei, in cui essa coglierà il frutto del suo lavoro, e, liberata dagli affari andrà a godere il bianco pane fragrante su la mensa apparecchiata. Il Quarto Stato poté essere quale io lo volli; un quadro sociale rappresentante il fatto più saliente dell’epoca nostra; l’avanzarsi fatale dei lavoratori…»

Il testo è tratto dal pannello espositivo sito in Piazza Quarto Stato a Volpedo

Il pescheto – Foto Ugo Roffi

Sentieri pellizziani

Nel 2011 l’Associazione Pellizza da Volpedo e il Comune di Volpedo in collaborazione con il CAI di Tortona e con l’Associazione Pietra Verde hanno realizzato due itinerari campestri ad anello (uno verde e uno rosso) sulle colline che circondano Volpedo che danno l’occasione di immergersi nelle atmosfere dei quadri del grande artista. 150 e 153 sono i numeri dei due itinerari entrambi ad anello che spesso si sovrappongono, soprattutto a causa della segnaletica che soprattutto una volta entrati nel bosco, tende a essere meno frequente. 

Inizio itinerario

Sulle colline tra i filari di pesche

Noi abbiamo scelto il 150 (itinerario rosso segnaletica CAI con cartellini a bande rosso -bianco-rosso) che parte dalla piazza Perino (piazza del Mercato della frutta) e si segue la segnaletica che porta fuori dal paese. Lungo il percorso si incontrano diverse riproduzioni di quadri di Pellizza, si segue la segnaletica fino ad abbandonare la strada asfaltata che va verso Pozzol Groppo per inoltrati lungo una strada campestre sopraelevata. Lontani dalle ultime case inizia a sentirsi il profumo della terra che è stata arata da poco, il paesaggio cambia, i colori si fanno più intensi, il marrone della terra, il verde dell’erba e il blu del cielo. E filari di alberi di pesche a centinaia, migliaia… e lì realizzi che è vero sei a Volpedo, famoso proprio per le pesche.

Panorama lungo il tragitto – Foto Ugo Roffi

A Volpedo, il trekking meglio in inverno

È vero pesche non ce ne è ma proprio la temperatura invernale (è il 19 febbraio) dà la possibilità di fare una bella escursione, quasi sempre esposta al sole e non troppo faticosa. Questi due itinerari mi sento di sconsigliarli in estate, visto che si sviluppano prevalentemente tra i campi da frutta e strade aperte.

Il piccolo borgo di Ca’ Barbieri in cime all’altopiano

Sentiero 150 o 153 questo è dilemma

Perdersi è difficile perché ci si riesce ad orientare abbastanza bene avendo quasi sempre la prospettiva del borgo. Pero devo dire che noi qualche difficoltà l’abbiamo avuta, infatti abbiamo seguito in parte il 150 e poi il 153… ne è venuto fuori un bellissimo trekking di quasi tre ore e mezza che rappresenta veramente un’immersione nei paesaggi pellizziani. Veniamo quindi all’itinerario così come l’abbiamo fatto noi.

L’escursione

Riprendiamo dal sentiero leggermente sopraelevato… si procede sempre dritti fino a quando inizia una salita dolce che procede fino ad arrivare ad un altopiano da qui si ammira un bel panorama, alle nostra spalle Volpedo, tutto intorno le colline del Monlealese. Si continua tenendo la sinistra, si scende leggermente fino ad arrivare al piccolissimo borgo di Ca’ Barbieri da poco restaurato dove si possono ammirare antiche abitazioni e casali. Arrivati qui si sbuca sulla strada asfaltata, si va verso destra, in questo punto si ritrova la segnaletica e si procede seguendo il 150 fino ad arrivare ad un bivio dove si abbandona la strada asfaltata e qui noi ci siamo persi. O meglio non trovando più la segnaletica del 150 ma solo 153 o 153 A abbiamo preso quest’ultimo svoltando quindi a destra e salendo leggermente. (Però a escursione finita e riguardando la mappa abbiamo pensato che forse , proprio in questo punto, se avessimo continuato ancora un po’ sulla strada asfaltata… forse avremmo ritrovato la segnaletica 150… ) Invece siamo entrati in un bosco che dallo stato della vegetazione non ci è sembrato molto frequentato, ci vuole quindi un pochino di spirito di avventura: si scavalca qualche albero caduto, ci si infila in qualche cespuglio… insomma niente di che… qua e là rispunta anche la segnaletica… sempre 153A si prosegue per un po nel bosco (circa un’oretta) fino ad incontrare un agriturismo e da qui inizia una lunga discesa su strada di cemento tra i campi e davanti a noi il borgo di Volpedo. Anello chiuso, con un po’ di avventura!

Uno dei pannelli espostivi lungo il percorso

Il ristoro

Visto che di pesche non se ne trovavano (se non sotto spirito) abbiamo deciso di spostarci qualche chilometro più avanti e a Tortona ci siamo consolati con un bel bicchiere di timorasso, vitigno eccezionale tipico della zona e una formaggetta di Montebore, eccellenza del tortonese. Entrambi consigliatissimi.

Campi – Foto Ugo Roffi

Itinerario provato il 20 febbraio 2023

Durata 3 ore mezza circa – Partenza e arrivo da Volpedo

Informazioni itinerario: link

Informazioni per visitare il borgo e il museo: link

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Trekking nella storia

Nel cuore della Valle Pentemina

Trekking nella valle Pentemina tra boschi, borghi e antiche leggende

Tinello, uno dei borghi della Valle Pentemina – Foto Ugo Roffi

Isolata e un po’ dimenticata la Valle Pentemina non conquista al primo sguardo, ci vuole qualche ora per capirne la bellezza, la si deve attraversare e con calma guardarla dalle diverse prospettive mentre lentamente si sale e ci si addentra, nel silenzio delle montagne e dei pochi umani che la abitano.

Casolari lungo le valle

Negli anni ho raggiunto Pentema da diversi sentieri e cammini, mai da questa valle un po’ in disparte.

Siamo partiti, io e Ugo, – come al solito un po’ tardi – da Genova e dopo avere fatto la Doria Creto, raggiunto e attraversato Montoggio, quasi alla fine del paese si vede l’indicazione  per Gazzolo e ad un bivio si imbocca una strada stretta, noi dopo meno di un km o poco più abbiamo posteggiato, in realtà si può proseguire ancora e poi lasciare la macchina nel piccolo slargo/piazzetta del borgo.

foto Ugo Roffi

Il percorso inizia quando si lascia sulla sinistra l’ultima casa del piccolo nucleo, si prosegue ancora su asfalto fino a incontrare un ponte (Ponte nero) da qui si inizia a salire dolcemente ma costantemente. Piano piano ci si addentra nella valle, qua e là se si alza lo sguardo si vede qualche nucleo di case incastonato tra rocce e costoni… molte sono abbandonate, altre non si riesce a capire chi possa abitarci tanto dura sembra la vita lassù… qualche edificio invece è stato ristrutturato da poco. Guardare il mondo da questa valle silenziosa deve essere un’esperienza da provare!

Una leggenda narra che la valle, nei secoli scorsi, fosse frequentata da tipi poco raccomandabili, tra questi un bandito in fuga che trovò riparo a Pentema e siccome prima di morire si pentì… il paese divenne Pentema. Verità o leggenda chissà… ma in tanto si sale…

Dopo circa un’ora e mezzo si giunge a un bivio, la strada a sinistra porta alle frazioni di Vallecalda, Poggio e CaseVecchie a destra viene segnalata Pentema. Si segue per Pentema.

Dopo una brusca discesa si riprende a salire e dopo poco più di mezz’ora si raggiunge Serre di Pentema. Un tipico borgo del nostro Appennino: si entra scendendo una scalinata e si entra nel suo cuore fatto di antiche case contadine. Si alza lo sguardo e dall’altra parte c’è il resto della valle, qualche casa si intravede in lontananza, poi alberi e il sole delle due che nonostante sia gennaio scalda ancora.

Ugo sulla scalinata che entra in a Serre di Pentema

Incontriamo due signore che abitano in una casa lungo la strada – vengono nel week end – e ci raccontano che oltre loro c’è anche un’altra famiglia nei giorni festivi; un ragazzo ci vive anche durante la settimana… per il resto non c’è una gran folla!

Il borgo è un gioiellino, ci addentriamo per le strette vie e proviamo a immaginare com’era vivere lì nei secoli scorsi. Le signore ci consigliano di proseguire il cammino fino a raggiungere Tinello, l’altra frazione prima di Pentema.

Imbocchiamo un sentiero in paese e improvvisamente ci troviamo immersi nel bosco e nei muri a secco. Alcuni sono alti diversi metri e ancora in buono stato, altri crollati, persi tra la terra e le foglie ed è chiaro come questi muri delimitassero proprietà, recuperassero terreno prezioso per essere coltivato in un tempo che a noi sembra lontanissimo. 

Il sentiero nel bosco che arte da Serre

Dopo qualche passo si sbuca sul tracciato principale.

Tinello sembra un po’ il villaggio di Frodo, immerso nel verde dei suoi prati, piccolissimo, una manciata di case. È tutto chiuso, passiamo in una piazzetta, poi attraversiamo una porta antica, sembra quasi di entrare in casa di qualcuno. Un paese bellissimo nel suo isolamento. Vorremmo andare avanti, raggiungere Pentema, che vediamo in lontananza, ma ci vorrà ancora un’ora buona di strada.

Edificio a Tinello

Ci fermiamo perché tra una chiacchiera e l’altra non è che siamo andati troppo di buon passo. E ci resta tutta la strada del ritorno.

In conclusione si tratta di un trekking semplice ma lungo: per arrivare fino a Pentema ci vogliono tre ore buone e poi si deve tornare indietro. Anche se al ritorno è quasi tutta discesa. Ad ogni modo non ci sono grandi pendenze.

Si cammina per lo più su asfalto rovinato e su sterrato; soprattutto la parte iniziale della strada è su asfalto e devo dire che toglie un po’ di romanticismo… ma le macchine che passano sono poche. Se si è in vena di avventura e si ha una jeep si può pensare di arrivare almeno fino a Serra di Pentema in macchina, dopo la strada è veramente brutta, oltre che stretta. Il mio consiglio è farla a piedi!

Per quanto riguarda noi, per fare l’itinerario descritto ci abbiamo impiegato circa 4ore e 30 minuti; la previsione andata e ritorno fino a Pentema almeno sei ore.

La Valle Pentemina è nel comprensorio del Parco dell’Antola e si raggiunge o da Montoggio o da Torriglia. Noi siamo passati da Montoggio.

Molte info per trekking nella zona si possono trovare nella guida di Andrea Parodi e Alessio Schiavi: La catena dell’Angola, Andrea Parodi editore

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La compagnia dell'anello

Anello nell’Alta Valle Sturla

Genova, a due passi dal mare, un itinerario ad anello porta alla scoperta di alcuni borghi dell’Alta Valle Sturla. Facilmente raggiungibile anche con i mezzi pubblici, ha il pregio di iniziare in città e di portarci in breve nella natura.

Da Genova Apparizione, Premanico, Pomà, San Desiderio e poi si chiude l’anello, Premanico, Apparizione. Noi l’abbiamo fatto due volte sperimentando partenze e arrivi dalle diverse destinazioni e il consiglio è di partire da Apparizione e seguire poi l’itinerario per Premanico, Pomà, San Desiderio e chiudere l’anello quindi Premanico e Apparizione. 

Facendo il giro in questo modo si camminerà un poco di più all’andata per un percorso quasi sempre nel bosco, piacevole, vario e senza grandi pendenze. Il paesaggio è quello del primo entroterra genovese, caratterizzato da muri a secco, ulivi, orti, fasce abbandonate, castagni.

Apparizione, inizio sentiero, la mattonata da seguire | Foto Ugo Roffi

L’itinerario dura poco più di quattro ore (a seconda del passo, noi ce ne abbiamo messe 4 ore e 15 e siamo camminatori medi) da aggiungere le pause. C’è una fontana a Pomà dove potersi rifornire di acqua e poco più avanti a San Desiderio si può fare pausa nella Società Operaia. L’itinerario è ben segnalato: prima un cerchio con la riga (fino a San Desiderio) poi un quadrato (da San Desiderio a Premanico). Si parte, gambe in spalla!

L’anello di Premanico

Apparizione – Premanico (30 minuti) Si arriva ad Apparizione (Monte Fasce) dove si può posteggiare la macchina dal cimitero o poco più su; per l’itinerario si imbocca la scalinata di mattoni, via Crocetta di Apparizione che sale abbastanza ripida fino a che non si incontra sulla sinistra il segnavia – cerchio rosso con riga – che indica il percorso; si svolta a sinistra fino a che non si incontra un bivio, si sale a destra e poi a sinistra fino a raggiungere la strada asfaltata che porta al Monte Fasce, la si incrocia un paio di volte, quindi si va a sinistra e si imbocca un sentiero lasciando, finalmente, l’asfalto. 

Poco dopo essere entrati nel bosco si incontra questo rudere con evidente il segnale del percorso: cerchio rosso e linea

Si segue sempre il segnavia e poco dopo si incontra un bivio, si va a sinistra e poco dopo si svolta a destra sempre seguendo il segnavia e una serie di cipressi che si rincorrono lungo questa prima parte del tracciato, che comunque è ben segnalato.

Poco dopo le ultime case l’itinerario entra nel bosco. Si prosegue sul sentiero costeggiando il monte, senza particolari difficoltà, il tracciato è praticamente in pianura e in circa 40 minuti si arriva a Premanico. Sulla sinistra si trovano i ruderi di un antico oratorio, sembra sia il più antico della Liguria. Ci si trova ad un crocevia. Da questo punto si può scegliere se andare verso San Desiderio tenendo la sinistra o a Pomà prendendo il sentiero a destra. Avendoli percorsi entrambi il nostro consiglio è andare a destra verso Pomà. 

Ruderi dell’ antico oratorio a Premanico | Foto Ugo Roffi

Premanico – Pomà (1 ora e mezza circa) il sentiero è un pochino più impegnativo della precedente tratta, ma solo perché ha qualche sali scendi e in alcuni punti è esposto, è comunque piacevole anche se un passo sicuro è certamente consigliato. Si prosegue nel bosco addentrandoci nella valle e immergendosi nel verde e nel silenzio. Muri a secco, fasce abbandonate e ogni tanto qualche rudere sono i segni di un territorio coltivato sin dall’antichità. Pomà ci accoglie con un grande prato dove consiglio di fare sosta, visto che è presente anche una fontana con acqua potabile.

Nel bosco verso Pomà | Foto Ugo Roffi

Pomà – San Desiderio (30 minuti) Rifocillati e riposati si va in direzione San Desiderio – un altro percorso sale a Bavari, ma non l’abbiamo ancora provato (in programma prossimamente però) – quindi si scende costeggiando un rio e percorrendo la Via Crucis, (lungo il tratto si vedono le croci) e anche se non particolarmente impegnativo è meglio farlo in discesa… in circa mezz’ora si arriva a San Desiderio. Il borgo è molto carino e ci si può “perdere” tra le tipiche viuzze, ma vale la pena una breve visita alla Società Operaia (del 1902) molto accogliente e ben fornita. 

Una delle croci in legno lungo la Via Crucis da Pomà a San Desiderio | Foto Ugo Roffi

Si chiude l’anello

Molto più breve e facile è la strada del ritorno che in circa un ora e mezzo riporta ad Apparizione. Il segnale da seguire è un quadrato rosso, non è subito evidente, bisogna quindi, proseguendo dalla piazza centrale passare dall’altra parte del torrente e salire lungo una mattonata, via Mogge che incrocia due volte la strada asfaltata (via Terre Rosse), si sale sempre e si incontra il quadrato rosso che d’ora in poi si seguirà. 

La Società Operaia a San Desiderio

La seconda volta che si incontra l’asfalto bisogna scendere qualche metro a sinistra dove si vede una scalinata che entra nel bosco, la si imbocca e in poco meno di un’ora vi porterà a Premanico e poi da lì si torna sul sentiero fatto all’andata e in 30 minuti si arriva ad Apparizione.

Dettaglio lapide presso la Società Operaia

È un sentiero che si può percorrere anche nella stagione calda in quanto prevalentemente nel bosco. Non ci sono punti di ristoro, la Società Operaia non sempre è aperta.

Totale anello 15 km

Località di partenza/arrivo: Apparizione

Durata: 4 ore e 20 senza soste

Dislivello: 500 metri circa

Itinerario provato il 16 agosto 2020 e 18 aprile 2022

Per effettuare il percorso si consiglia di consultare guide e siti locali per essere aggiornati sulle condizioni del tracciato.

Lungo il sentiero, si intravedono i monti sopra Genova e la cava da Forte Ratti
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La compagnia dell'anello Valle Maira

L’anello di Colombata

Un’escursione particolarmente bella e un po’ fuori dagli itinerari classici della Valle Maira, ma di grande fascino sia da un punto di vista ambientale che storico culturale. Con il grande pregio di essere adatta a tutte le gambe, in quanto non si devono affrontare salite o discese troppo ripide: si sale e si scende dolcemente per circa 450 mt di dislivello. Un po’ di allenamento comunque ci vuole!

Panorama da Colombata

Verso Punta della Madonnina

L’escursione classica (Punta della Madonnina) può partire da Lausetto, che si incrocia subito dopo Acceglio (dopo frazione Villar a destra), oppure proseguendo, direttamente nel piccolo borgo di Colombata (1585 m), qualche km più su, dove c’è uno slargo dove lasciare la macchina. (Noi l’abbiamo messa lì).

Da qui si prende l’unica strada asfaltata che sale dolcemente e prosegue per circa un km fino ad incontrare il ponte sul rio Mollasco, che si attraverserà seguendo le indicazione per il Sentiero Prando. Da qui l’asfalto lascia spazio a una comoda mulattiera che si arrampica dolcemente e tra una curva e l’altra lo sguardo corre verso lo spettacolare panorama dell’Alta Valle Maira. Lungo il percorso si incontrano diverse grange (case/ ruderi tipici) fino a raggiungere dopo circa 90 minuti un bivio e la segnaletica ci indica di proseguire a destra dove, dopo un quarto d’ora, procedendo ormai in piano si raggiunge la punta della Madonnina (1965 m) – uno sperone roccioso, splendido punto panoramico rivolto verso Acceglio, il vallone di Unerzio e il vallone di Traversiera.

La compagnia dell’anello colpisce ancora!

L’escursione finirebbe qui (tempo impiegato due ore per la sola andata) ma noi, catturati dalla silenziosa bellezza del luogo e incuriositi da una chiesetta che si intravede in lontananza ci diciamo: «chissà che la strada non porti lì e poi in qualche modo si riesca a tornare indietro… in fondo siamo o non siamo la compagnia dell’anello!». Scherzi a parte, in montagna non bisogna mai avventurarsi troppo… ma alla partenza avevamo visto una strada che scendeva proprio dall’altra parte del ponte, all’imbocco della nostra escursione. L’idea era che raggiungendo quel tracciato si potesse chiudere l’anello.

Un gruppo di escursionisti del luogo incrociati poco dopo ci confermano che l’anello è fattibile, anche se non segnalato, basta camminare ancora un po’.

La Cappella rispunta lungo il percorso

La Cappella della Madonna delle Grazie

Tornati al bivio imbocchiamo la parte sinistra della mulattiera inoltrandoci in una valle meravigliosa e molto ventosa, siamo quasi a 2000 metri, è gennaio ma la neve si è quasi tutta sciolta, a parte in qualche passaggio che ci impegna un po’. Procediamo più lentamente, ma si va bene anche senza ciaspole o ramponcini.

Superata grangia Ponza, l’itinerario non è più segnalato ma si continua leggermente in salita fino ad incontrare dei lavori in corso (una strada in costruzione). È la strada che bisogna imboccare, lasciando quella che si stava percorrendo che invece continua in salita. In circa 45 minuti si raggiunge la Madonna delle Grazie (2000 mt), antico luogo di culto edificato intorno al 1720 grazie al supporto economico di alcune famiglie del luogo “eretta per tenere lontane le schiere degli invasori”, si legge fuori dall’edificio.

Immersi nel silenzio, ad esclusione del vento che soffia incessante, con lo sguardo che spazia tra le montagne delle valle… qualcuno potrebbe anche trovare la fede! Chissà…

Si chiude l’anello

È anche il tempo di una pausa, sono quasi tre ore che camminiamo e quei tavoli e panche di legno fanno proprio il caso nostro. Mangiamo, salutiamo gli altri escursionisti che avevamo lasciato indietro e ci hanno raggiunto e proseguiamo lungo l’unica strada che sempre in discesa ci fa sbucare sul ponte dal lato opposto da dove si era partiti.

La strada dopo qualche chilometro (dalla chiesa) diventa asfaltata e procede agevolmente fino a Colombata. Noi abbiamo impiegato poco meno di un’ora mezza.

In estate è possibile raggiungere la Cappella anche con la macchina (per fuori strada), in inverno invece è percorribile solo a piedi. Il percorso dell’andata invece è solo su mulattiera. 

Ponte che si incrocia poco dopo l’inizio della discesa sulla via del ritorno

Località di partenza/arrivo: Colombata (da Dronero proseguire verso Acceglio e poi girare verso Lausetto e poi continuare verso Colombata, la strada è stretta ma tutta asfaltata).

Durata: 4 ore 30 minuti senza soste circa per l’anello; per raggiungere Punta della Madonnina 2 ore, solo andata e ritorno sulla stessa strada

Dislivello: 450 mt circa

Percorso parzialmente segnalato 

Escursione fatta il 4 gennaio 2022

Per effettuare il percorso si consiglia di consultare guide e siti locali per essere aggiornati sulle condizioni del tracciato.

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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

Stonehenge alla ligure

La meraviglia della natura e il mistero della storia si incontrano sulla Strada Megalitica anche conosciuta come la Stonehenge” del Beigua, un itinerario nel cuore della preistoria particolarmente interessante sia da un punto di vista storico che naturalistico.

Alcune pietre di dimensioni impressionanti lungo il tracciato

Siamo a pochi chilometri da Varazze – nel Parco Regionale del Beigua – e l’itinerario alla scoperta di queste antiche e maestose pietre parte dalla piazza di Alpicella (posteggio). Da qui si prosegue lungo via Ceresa (indicazioni: NTL), la strada oggi asfaltata taglia la costa del monte anticipando la vista del Monte Greppino e prosegue (almeno per 45 minuti) fino all’imbocco del sentiero vero e proprio che condurrà verso la Strada Megalitica. È un sentiero piuttosto semplice e adatto a tutti quello che dopo poco meno di un’ora conduce alla Stonehenge del Beigua (indicazione N).

Lungo il tracciato si incontrano moltissimi muri a secco, per lo più abbandonati e in decadenza ma che segnalano come l’area fosse un luogo antropizzato sin dall’antichità; ed è in un crescendo di bellezza e stupore che si entra passo dopo passo nella preistoria. 

Non c’è foto che tenga, una volta varcata la soglia l’incanto cattura l’occhio e anche il camminatore meno attento non può che rimanere senza fiato mentre cammina nella penombra del bosco lungo su un viale lastrico bordato da un filare di maestosi faggi e affiancato da possenti pareti di pietra. La parete nord è costituita da macigni ormai quasi completamente abbattuti, mentre la parete a valle è formata da una successione di pietre di diversa misura sino a costruire un muro continuo. 

Il percorso termina in corrispondenza di un cerchio di pietre fitte affiancate al cui centro si trova un masso orientato verso il Monte Greppino.

Foto Ugo Roffi

Lungo il tracciato si incontrano diversi cartelli informativi che suggeriscono come il percorso sia caratterizzato da elementi che fanno pensare alla cultura celtica e che presuppongono un uso dell’area per scopi rituali e religiosi.

Lungo il cammino si può fare una deviazione e in poco meno di trenta minuti si raggiunge il Monte Greppino (indicazione T), rilievo nudo e roccioso, famoso sin dall’antichità per la sua caratteristica di attirare i fulmini e per questo era ritenuto sacro. Da qui si gode un ottimo panorama, dal Monte Beigua alle spiagge del ponente ligure.

Panorama dal Monte Greppino – Foto Ugo Roffi

Il cammino può proseguire fino alla Cappelletta Faie dove si raggiunge con una larga carrareccia che scende dolcemente e ripercorre le tappe della Via Crucis e termina al bivio dove si trova la Cappelletta. Andando a destra (seguendo la strada asfaltata) si torna dopo più di un’ora ad Alpicella. In alternativa si ritorna sui propri passi ripercorrendo la strada megalitica e l’itinerario già fatto a ritroso.

Per effettuare il percorso si consiglia di visitare il sito del parco: www.parcobeigua.it

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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

Sulle tracce della ex Guidovia

Trekking verso il Santuario della Guardia alla scoperta di un pezzo di Genova industriale: la ex guidovia.

Pannelli informativi –

Di questi tempi farsi guardare con un occhio di riguardo dalla Madonna potrebbe avere i suoi risvolti positivi… non so se è un caso ma nell’ultimo anno sono capitata diverse volte sui sentieri che portano al Santuario della Guardia e nonostante ognuno abbia il suo fascino… il percorso della Guidovia mi è restato nel cuore.

Dalla Gaiazza, partenza. La truppa al completo!

Un po’ di storia 

Per gli appassionati di archeologia industriale – anche se in realtà di manufatti non ce ne sono più – è un must, anche perché la Guidovia è la prima e unica applicazione in Italia del brevetto dell’ingegnere Alberto Laviosa (1877-1959) che usava la trazione su gomma unendola alla guida su rotaia. Anche definito autoguidovia.

La Guidovia nasce da un fortunato connubio tra ingegno e devozione e diventa presto parte del paesaggio industriale che caratterizzava il ponente genovese, allora chiamata la Manchester d’Italia. 

Tracce della Guidovia lungo percorso

Già da fine Ottocento si parlava di quale mezzo fosse più adatto per raggiungere il Santuario mariano, ferrovia di montagna, ferrovia elettrica, un sistema misto di tram e funicolare, fino all’arrivo di Carlo Corazza, imprenditore e azionista delle Autovie Piacentine, che in segno di devozione dopo essere guarito da una malattia ai polmoni, decide di realizzare il sogno di molti pellegrini.

La guidovia 

I lavori iniziano nel 1924 e si concludo nel 1929 ma la tratta viene completata e inaugurata nel 1934. Si tratta di una linea a binario unico, lunga complessivamente 10.594 metri, con un dislivello di 704 metri ed una pendenza media del 66,5 per mille, massima dell’83 per mille. Partenza da Serro e in 45 minuti toccando varie stazioni si arrivava al Santuario, un viaggio lento, confortevole e panoramico che per 38 anni rappresentò una valida alternativa per pellegrini, lavoratori e turisti. In periodo di guerra veniva invece utilizzata per sfollare parte della città. Nel 1967 con l’arrivo della strada carrabile cadde in disuso e venne chiusa. La maggior parte del materiale rotabile è andato perduto fatta eccezione per la motrice n.1 che si trova al Museo dei Trasporti di Villa Fantasia sul Lago Maggiore.

giochi per bambini… e non solo

Fortunatamente nel 2006 in comune di Ceranesi ha recuperato la parte del tracciato che da Gaiazza arriva al Santuario e oggi è diventata una bella passeggiata adatta a tutti.

Il trekking 

Il percorso classico parte in localita Gaiazza dove è subito visibile l’arco con la scritta Guidovia e i pannelli informativi che ne raccontano la storia. Poco prima si incontra anche una trattoria dove vale la pena fermarsi, magari al ritorno della passeggiata per una merenda (la focaccia è ottima).

Noi invece siamo partiti da Pontedecimo, allungandola quindi di una quarantina di minuti. L’imbocco del sentiero è dietro il campo sportivo “Rinaldo Grondona”, alla sinistra si trova una scalinata di mattoni, si procede sempre in salita, si supera il viadotto ferroviario e si continua a salire, fino a raggiungere la strada asfaltata in località Case Marseno, si prosegue sulla destra rientrando nel verde, si raggiunge Case Zuccarello e si è di nuovo sulla strada asfaltata, qui si segue l’indicazione per Gaiazza che si raggiunge poco dopo.

panorama, quasi in vetta

Da qui il percorso per il Santuario è segnato molto bene, largo, adatto a tutti, non particolarmente faticoso, molto panoramico ed adatto in ogni stagione. Non ci sono grandi difficoltà, la salita ha una pendenza moderata ma si tratta comunque di quasi 7 km (da Gaiazza solo andata) e un po’ allenati bisogna esserlo, soprattutto se si vuole tornare indietro.

Il ritorno

Il mio consiglio è di tornare dalla stessa strada, noi abbiamo deciso di chiudere l’anello, perché avevamo letto di un sentiero che portava a Bolzaneto, non l’abbiamo trovato e siamo scesi passando “fuori strada”, per il bosco, andando un po’ a seguendo google map, un po’ a sentimento. Ma in taluni tratti era piuttosto impervio, per questo lo sconsiglio.

cappelletta votiva lungo il percorso

Durata percorso (solo andata): da Gaiazza 2,30- 3 ore da Pontedecimo circa un’ora in più

Lunghezza: da Pondecimo Km 9, da Gaiazza circa 7 solo andata

Difficolta: T (turistico) da Gaiazza E (escursionistico) da Pontedecimo

Per approfondire la storia della Guidovia: C’era una volta il futuro A cura di Giovanna Rosso del Brenna e Massimo Minella; Edizioni La Repubblica – Università di Genova, 2021

Arrivati 🙂 con Ugo Roffi

Percorso fatto il 26 dicembre 2019

Questo racconto vuole essere solo uno spunto, chi decidesse di cimentarsi in questo trekking è consigliabile verifichi informazioni più dettagliate sul percorso.

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La compagnia dell'anello Trekking nella storia

I sentieri napoleonici del Beigua

Due sentieri tra storia e natura per riportare l’attenzione sulla straordinaria bellezza di questo parco ancora una volta sotto minaccia.

La chiamano la Montagna con vista mare e in effetti lo spettacolo da lassù e straordinario: lo sguardo va dalla riviera di levante e quella di ponente, le Alpi Liguri, la Pianura Padana, l’Appennino ligure e tosco-emiliano, le Alpi Apuane e in fine la Corsica. In una parola: l’immensità.

Ancora titanio

In questi giorni il Parco è tornato agli onori delle cronache, non per le sue bellezze, come sarebbe giusto, ma per l’ennesimo tentativo della CET, società mineraria con base a Cuneo, di avviare indagini finalizzate all’apertura di una miniera a cielo aperto per l’estrazione del rutilo (titanio). La vicenda va avanti da circa quarant’anni (chi volesse approfondire può leggere qui), ma mentre prima la Regione Liguria aveva sempre negato il permesso di estrazione, questa volta, uno zelante funzionario, come ultimo atto prima di andare in pensione, ha firmato il decreto che dà il via libera alla ricerca di titanio per tre anni in un’area appena fuori dal Parco, ma comunque tutelata. 

Sembra incredibile ma le cose stanno così. Le associazioni ambientaliste, insieme a cittadini e amministratori del territorio hanno lanciato subito una petizione (si può firmare qui) che ha raccolto 23.000 firme in dieci giorni. Regione Liguria, fin dall’inizio ha cercato di minimizzare, però ad oggi non ha ancora ritirato il decreto. 

Memorie napoleoniche

L’itinerario proposto vuole essere un’occasione per fare conoscere questo parco che non è solo ricco di biodiversità e bellezze naturali, ma custodisce anche preziose memorie del nostro passato. Su questa montagna francesi ed austriaci combatterono per 7 giorni dal 10 al 16 aprile 1800. Il massiccio del Beigua fu teatro di sanguinosi combattimenti e oggi è possibile rivivere la storia di quelle terribili giornate attraverso una serie di tavole disposte lungo i percorsi. .

Pannello esplicativo a Pian di Stella – Foto Ugo Roffi

L’itinerario giallo (versante padano) e quello rosso (versante marino) si possono fare singolarmente oppure si può scegliere – facendo un breve sentiero che li unisce – di fare un anello. Noi, essendo fatalmente attratti dagli anelli… ci siamo cimentati e abbiamo impiegato circa 3 ore e 30 minuti, pause escluse. Entrambi partono da Pian di Stella (m. 1220) poco sotto la vetta del Beigua.

Quando i due itinerari si incrociano

L’anello

Se si sceglie di percorrerli entrambi con l’anello, il mio consiglio è partire dall’itinerario giallo dove in breve tempo si raggiunge un altipiano panoramico: lo sguardo spazia tra la val padana e le maggiori cime piemontesi; si prosegue con un cammino semplice e piacevole e ben segnalato fino ad arrivare in un bosco, qui bisogna stare attenti a non perdere la strada, nonostante il sentiero sia sempre segnalato bene, noi abbiamo avuto qualche difficolta, quindi prestare attenzione. Poco dopo si incrocia il sentiero per Santa Giustina e in breve è possibile unirsi con l’altro itinerario, quello rosso. 

Lungo tutto il tragitto si incontrano tavole che segnalano punti di interesse naturalistico e storico. Emozionanti quelle che raccontano gli scontri e i combattimenti che ci furono tra francesi e austriachi. 

Si legge: “Il 12 aprile 1800 il contrattacco francese sul Beigua si infranse lungo i pendii di Monte Cavalli. Su questa forte posizione più di tremila soldati ungheresi resistettero al nemico sino al tramonto. Dal Monte Cavalli gli Imperiali scesero più volte rispondendo con le baionette agli assalti francesi”

Si chiude l’anello con una salita abbastanza dritta, ma breve (20 minuti), quando si torna al punto di partenza, a Pian di Stella, consiglio, se si è partiti dall’itinerario giallo di riprendere l’inizio del itinerario rosso in modo da fare visita anche al cippo 1 da dove si gode un panorama mozzafiato della Liguria. (Vanno aggiunti al percorso altri 30/40 minuti).

Naturalmente chi decidesse di cimentarsi in questo trekking, è meglio consulti prima il sito del Parco Beigua, completo di tutte le info. Questo racconto vuole essere solo uno spunto.

Partenza: per entrambi gli itinerari Pian di Stella, Parco Beigua

Durata: per l’anello 3 ore 30’’ 

Itinerario fatto nel inverno del 2019 e nella primavera del 2020.

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La compagnia dell'anello

L’anello di Murta

Facile e non troppo impegnativo, si chiude se si resiste alla tentazione delle ottime trattorie lungo il percorso (lo dico per esperienza)

Si tratta di una sgambata veloce: una mezza giornata basta e avanza!

Si parte da Murta (o da Bolzaneto, noi siamo saliti in macchina fino alla chiesa di Murta dove abbiamo posteggiato, altrimenti ci arriva il bus 74, dove poi si tornerà dopo circa quattro ore, a seconda del passo e delle soste, noi (tre ore e mezzo).

Chiesa di Murta

Dalla chiesa si sale e si oltrepassa la Trattoria da Marietto (per fortuna era chiusa perché si mangia molto bene e la tentazione sarebbe stata forte) si prosegue sempre in salita fino a raggiungere l’ultima casa. Il percorso inizia a un bivio dove cartelli indicano la possibilità di raggiungere il Colle di Murta sia dal sentiero di sinistra che di destra. Consiglio quello di sinistra che parte in leggera salita e prosegue così per un’oretta, a tratti il sentiero è un po’ sconnesso, per questo è preferibile farlo in salita… 

L’Asosto di Bigiae

Dopo poco più di un’ora, si incontra uno strano monumento rurale: è l’Asósto di Bigiæ che grazie a una recente ristrutturazione è stato riportato al suo fascino originale dal CAI Bolzaneto. La forma è quella di un trullo, le sue origine sono incerte, ma si pensa che servisse da riparo per cacciatori e viandanti che avevano come meta il Santuario mariano.

Intorno il paesaggio brullo del primo entroterra, se si alza lo sguardo si incontra il santuario della Madonna della Guardia, si prosegue sempre lungo il sentiero fino a incrociare la strada che porta a Scarpino e poco dopo si raggiunge Colla di Murta. Si fa qualche metro sull’asfalto per poi tornare nel verde:  un cartello indica di proseguire e chiudere l’anello tornando dove si è partiti. Il tragitto è più breve circa un’ora e venti e piuttosto pianeggiante, il paesaggio è molto diverso, brullo all’inizio con pochi alberi poi si entra nel bosco e si scende piano piano fino alla Cavalla di Murta.

Se si ha tempo quando si è sull’asfalto, in localita Scarpino, si può proseguire ancora qualche minuto a piedi per raggiungere Lencisa, dove si può fare una pausa pranzo (notevole, ci sono due ristoranti che vale la pena provare) oppure si può proseguire, allungando decisamente il percorso, verso la Madonna della Guardia che si raggiunge in circa 40 minuti (una salita non male).

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Di vino e altre storie

Slovenia, terra di vini ribelli

Il vino controrivoluzionario di Stanko Curin e le lunghe macerazioni di Movia. Due stili contrapposti per raccontare il vino sloveno.

Non prometteva niente di buono il giorno della partenza: pioveva ed eravamo in moto… e ha continuato a piovere per tutti i dieci giorni del viaggio. Ma organizzare questo viaggio è stato anche realizzare il sogno di conoscere le due anime vitivinicole della Slovenia, che guarda caso si trovano sui lati opposti geograficamente e non solo, di questo paese: Movia nel Collio sloveno e PraVino sul confine con l’Ungheria

Lago di Bled
Lago di Bled

Nonostante la Slovenia sia decisamente piccola: poco più di ventimila km quadrati, ha una buona varietà di vitigni che danno un’impronta unica ai vini prodotti. Questo è dovuto in parte al clima, al terreno, al vitigno e naturalmente alla mano e al gusto dell’uomo che il vino lo fa. I distretti vinicoli più vocati sono nella parte più a est Jeruzalem-Ljutomer, dove si producono fra i migliori bianchi del paese, la città più grande della regione è Maribor dove cresce la vite più vecchia del mondo. L’altra zona è quella vicina ai nostri confini, Primorska tra Istria, Carso (Kras), Collio (Goriska Brda) e la Valle del Vipava. 

Due produttori rappresentano, a mio avviso, l’anima vitivinicola di questo paese: Movia, ovvero Ales e Vesna Kristancic e Pra-vino ovvero Prapotnik Curin, nipote del grandissimo Stanko Curin. Incontrarli e degustare insieme a loro alcuni vini è un privilegio da condivedere!

Vigne a Jeruzalem

Le differenze tra i due non potrebbero essere più forti ed esasperate. Strabordante, magnetico, istrionico Ales /Movia, timido e introverso Curin. Entrambi però figli “legittimi” della loro terra: generosi, accoglienti e ognuno a proprio modo maestro nell’arte di fare il vino.

La famiglia Curin vive sul confine con l’Austria, a Kog. Stessa strada, marciapiede opposto si è già in terra straniera. Geograficamente i Curin si trovano in una delle zone più vocate per il vino: nel distretto di Prekmurje tra le colline di Maribor e Jeruzalem dove lo sguardo si perde tra filari e vigneti per chilometri…

La famiglia Curin produce vino da tre generazioni, ma fu il nonno Stanko a imprimere la svolta. “Erano gli anni del secondo dopoguerra e il partito comunista (la Slovenia faceva parte del blocco sovietico) imponeva a tutti i produttori di conferire il vino alla cantina sociale del paese, non si poteva fare diversamente”, racconta Propotnik ricordando il nonno. Ma Stanko credeva troppo nel suo vino e di nascosto iniziò a girare il paese vendendo una parte del vino imbottigliato autonomamente. “Insomma un controrivoluzionario”, direbbe qualcuno oggi. Stanko fu il primo a sfidare, all’epoca, il regime comunista e oggi il nipote continua a portare avanti la sua filosofia che è fatta di un vino che vuole essere il più integrato possibile con il territorio per riprodurne sapori e profumi. Unica deroga ammessa su alcuni prodotti un minore quantitativo di residuo di zucchero. “Abbiamo deciso così per venire incontro a quello che ormai è il gusto prevalente, le persone tendono a bere il vino pasteggiando e spesso un tasso un po’ più elevato di zucchero, come contengono alcuni dei nostri vini tradizionali, possono essere percepiti come fastidiosi”. 

Con Prapotnik Curin – Pra Vino

La degustazione inizia con un vino autoctono, il Sipon, che deve il suo nome a Napoleone, che dopo averlo assaggiato disse con entusiasmo: “c’est bon!” Un vino semplice ma molto interessante e duttile, il progetto per il futuro è di utilizzarlo in uvaggio con il Traminer per produrre uno spumante metodo classico. Lo Chardonnay è leggero e profumato mentre il Sauvignon ha le tipicità del vitigno con le caratteristiche del suolo dove cresce: molto profumato con un tocco di mineralità. Ma sono i vini semi-secchi che rappresentano lo stile di questa terra e devo dire che assaggiarli è stato un viaggio indimenticabile. In un crescendo Curin ha aperto Traminer, Moscato giallo( selezione 2012), Renski Riezling e  Laski Riezling 2008 il famoso Eiswein, vendemmiato durante tre notti di gelo a metà gennaio. Questi sono gli incredibili numeri: 190 gr di zucchero per 11vol. di alcol e 8,8 di acidità. Dal 2008 non sono più capitate tre notti freddissime, quelle che ci vogliono per ottenere il vino del ghiaccio! 

Prapotnik, che porta il nome del nonno, da cui il nome cantina “Pra-vino” ci ha salutato a fine pomeriggio con la promessa di venire in Italia per una degustazione. 

Quando ho deciso che sarei andata in Slovenia sapevo che il viaggio avrebbe dovuto comprendere la visita a Movia, nel Collio sloveno. L’appuntamento era stato fissato con largo anticipo con Vesna moglie e factotum di Ales. Con una puntualità svizzera all’ora giusta stavo già bussando alla porta: un uscio antico con su scritto Movia – che è il nome della famiglia – si apriva. Vesna mi dava il benvenuto in una casa con vista mozzafiato sul Collio, proprio sul confine come Pra-vino, ma a due passi dall’Italia.

Seduti in terrazza iniziamo a degustare i primi vini mentre Vesna racconta la storia della sua famiglia nell’attesa che Ales finisca di vendemmiare. L’opulenza nella rarefazione è già nel primo sorso di Ribolla 2011 (barrique non filtrato) poi Tokay–Gredic 2012 profumatissimo e ricco di frutto, poi l’aromaticità del Sauvignon 2012, e infine un Pinot grigio 2012 (10 giorni di macerazione e poi un anno in barrique). Poi un rosso: pinot nero 2008, acidità, frutti rossi e tannini. Un attimo di pausa dobbiamo riprenderci, sta per arrivare Ales. Entra e il palcoscenico è suo. Si muove con la consapevolezza che cattura ogni sguardo, ogni sua parola (parla italiano) è percepita come “verità”.

Seduti insieme a me ci sono due sommelier americane in viaggio studio e due romani, lì per comprare qualche bottiglia d’annata. Mentre vengono aperte due bottiglie formato Magnum di Puro e di Lunar Ales racconta la sua filosofia di vita. “Solo con il rispetto della terra e del nostro ecosistema si può ottenere un frutto perfetto che poi diventerà il vino che stiamo bevendo”. Su ogni ettaro di terreno al massimo ci sono 5/6000 piante, “non penso che più piante diano una migliore qualità, al contrario penso che ogni pianta deve trovare il suo spazio per potere crescere con passione”. Niente prodotti chimici, conservanti, erbicidi, solo lieviti naturali e nella fase della fermentazione il controllo della temperatura.

Tradizione e modernità sono le parole chiave che hanno fatto diventare Movia uno dei produttori sloveni più conosciuti al mondo. Il suo Puro è infatti uno degli spumanti più interessanti. “Abbiamo voluto regalare al consumatore il brivido del “degorgement”, della sboccatura”, il vino viene infatti imbottigliato con i suoi lieviti naturali che grazie alla loro permanenza in bottiglia gli garantiranno corpo, profumi e ricchezza fino al momento dell’assaggio. Certo l’apertura non è proprio una cosa semplice, e anche Ales ha qualche difficoltà nell’aprire la magnum che tra poco degusteremo. Ma il risultato finale ripaga di tutto. Le parole di commiato di Ales rivelano ancora una volta come per ottenere un grande vino ci vuole soprattutto una visione: “piantare una vite è una cosa importante perché lo fai per le prossime generazioni. Saranno loro, infatti, a raccogliere i frutti migliori. Per questo lo devi fare bene”.

Con Ales (Movia) in degustazione

Più vicini siamo alla natura migliore sarà il nostro vino.

L’articolo è stato pubblicato la prima volta su Popoffquotidiano nel marzo 2015.